di Selene Grimaudo
Ormai i social ci inglobano, fanno parte integrante della quotidianità, dell'esistenza. Quanti di voi come prima azione appena svegli accendono il cellulare e si connettono a Facebook, a Twitter, a Instagram, oppure guardano le chat di whatsapp? Credo siano tante le persone che come abitudine quotidiana hanno quella di connettersi con il mondo esterno appena svegli, di leggere i post degli amici, i tweet, i commenti nei gruppi, le notizie dei giornali online. Connessi, troppo connessi con un mondo virtuale che sembra, ormai, diventato reale, più reale di quello che si vive nella realtà. Forse la distinzione non esiste neanche più, quasi tutti lo considerano una parte integrante del proprio mondo. Sono azioni quelle di connettersi, di postare, di twittare, di condividere, di commentare che ormai assumono il carattere di una reale quotidianità. É diventato un esteso mondo a portata di touch e sembra quasi di avere il potere in un dito. Il dito che digita! Quel dito è capace di fare diventare la gente sapiente, dotata della cultura del copia-incolla, intrepida, impavida, capace di scrivere qualsiasi recondito pensiero, offensivo o irriverente, tagliente, volgare senza battere ciglio, con una sicurezza che poi nella vita reale non si riscontra. Si tratta dei leoni da tastiera, a volte coperti da anonimato, che si lanciano in improbabili verità che risultano tali, solo perché esternate con veemenza e farcite di luoghi comuni, ad un vasto pubblico che legge, ma che, in effetti, non sono tali. La realtà virtuale porta ad omologarci, a farci diventare tutti uguali perché gravitiamo nello stesso calderone virtuale. Diventiamo figli di un egualitarismo che tende a rendere omogeneo ciò che, invece, é eterogeneo per natura, per cultura, per sensibilità personale, esperienze professionali, culturali, di vita. No, non siamo tutti uguali dietro lo schermo, siamo diversi e a volte incompatibili. Diversi e non omogabili. Diversi per necessità e per scelta. E la diversità a volte stenta a farsi comprendere. Non sempre ciò che per noi é un concetto semplice o una prassi scontata, per l'altro é così semplice da comprendere e spesso si fa una gran fatica a spiegare con il rischio naturale di non essere compresi o fraintesi. Di frequente ci s'interroga se vale la pena entrare in polemica, per chi, per cosa? Per la necessità di affermare un concetto, per il bisogno di dire la propria opinione, per la voglia di fare capire che si conosce l'argomento? E poi... ci si rende conto che talvolta non si conosce il proprio interlocutore virtuale, che forse, se va bene si riconosce l'immagine perché lo si conosce di vista. Ma sui social siamo tutti amici o tutti componenti di gruppi che interagiscono. Poi ci si arrabbia, si commenta, si parla del virtuale nella vita reale e non si comprende più dove finisce il virtuale e inizia il reale e viceversa. Ad un certo punto, però, quando le ore che si dedicano al virtuale sono maggiori di quelle che si dedicano ai propri interessi reali si comprende che qualcosa non và e si cerca di sfuggire a questa dipendenza ritrovando se stessi. E allora gli altri si preoccupano perché non rispondi ai messaggi di whatsapp, perché non posti o non twitti, perché fai silenzio. A volte il silenzio o un uso diverso dei social serve a ritrovare quella dimensione reale che riconduce a se stessi e alla vita. Avere la capacità di estraniarsi, senza ricorrere spesso a tale uso, dovrebbe avvenire prima di doversi imporre di smettere un pò, prima di capire che l'utilizzo è diventato frequente. Così sarà semplice ritrovare la propria autonomia, l'individualità che sfugge al tracciamento degli altri minuto per minuto, per ricordarci che un stare un pò da soli è funzionale a se stessi. Senza esagerazioni si potrà vivere l'era digitale presente con il rispetto dovuto al nostro spazio di reale quotidianità. In medio stat virtus.
Domenica 24 luglio 2016
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